sabato 4 aprile 2020

Occhi.

Son tempi che puoi camminare per qualche decina di metri, fuori dalla porta di casa.
Allora, che ero lì che mi godevo queste ricalpestate decine di metri come quando avevo pochi anni e imparavo ad andare in bicicletta al costo di nutrire l'asfalto conosciuto con un po' di pelle delle mie ginocchia, mi sono reso conto che - avevo il cappuccio della felpa su e la mascherina, che in tempi normali sarei sembrato un black bloc iscritto a medicina - se il sole tiene botta, tra qualche tempo avrò un'abbronzatura da niqab. Tutti, ce l'avremo.
Che io, quando calpesto quei metri, delle volte i vicini mi riconoscono dalla voce. Calpesto quegli amati metri, vado a fare la spesa o al bancomat, ho la botta di culo che continuo a lavorare e - delle persone - vedo gli occhi. E li cerco, gli occhi altrui, e ci parliamo anche se non ci salutiamo - anche se magari non ci si toglie le cuffie - e ci diciamo cose. Che se prima - guardarsi gli occhi, se non negli - era un po' invadente, adesso delle volte vuol dire Ti conosco, e spesso Ti riconosco, cioè Ti conosco di nuovo, che non siamo gli stessi di quando è iniziato tutto, la pandemia e i cazzi mazzi connessi.
Dicono cose, gli occhi.

"Sono anziano, ho paura."

"Grazie, che hai fermato carrello e tutto e fai passare prima me."

"Mi fa piacere vederti."

"Vivo da solo, scambiamo due parole."

"Lo so che non sono proprio attaccato a casa, ma avevo bisogno di vedere il mare."

"Ce la facciamo." "Sì. Siamo venuti su a burrasche, ce la facciamo."