Inizio che è un sabato. Avrei dovuto iniziare un lunedì – con un gran bell’affiancamento - ma un collega s’è ammalato, e così vengo gettato nella mischia. I ragazzi della Comunità mi approcciano ognuno a modo suo, con la grammatica che ogni storia personale permette loro di utilizzare: c’è chi si interessa di me e di che lavoro facevo prima, c’è chi mi fa sibilare pugni velocissimi e potenti o calci volanti a pochi centimetri dal viso per vedere se indietreggio o se i miei occhi si riempiono di paura, c’è chi mi offre una sigaretta che – scoprirò poi – in quel micromondo è un piccolo tesoro, c’è chi mi racconta storie più grandi di lui, c’è chi è contento che io parli un po’ della sua lingua e mi insegna nuove parolacce o modi di dire e c’è anche chi non parla proprio.
A., lui, non parla proprio.
“Lui?” – chiedo agli altri ragazzi.
“Ah, lui, stai attento: lui scappa – rispondono – A. vuole andare via, è già scappato molte volte, ma lo hanno sempre ritrovato e riportato qui. Parla poco e parla solo inglese ma, se lo sai e credi che noi ti raccontiamo delle palle, chiedilo direttamente a lui.”
“Come sarebbe a dire, che scappa?!”
“Sì – rispondono – lui vuole arrivare a nord. Più a nord. Più a nord ancora. Dice che lo aspettano, che c’è tipo un amico del cugino del padre, che deve mandare i soldi a casa perché hanno fatto i debiti per fargli passare la prima frontiera e sua mamma sta male, deve mandare i soldi a casa.”
“…quando è arrivato, sembrava un gatto finito sotto a una macchina. – interrompe una ragazza - Era tutto graffiato, pesto…”
“Ci credo! – interviene un quindicenne con lo sguardo da uomo – Prova te, a saltare da un camion in corsa!”
“Madonna, le palle che raccontano questi.” – penso, e mi metto a cucinare. Io sono bravo, a cucinare, e entrerò nel loro cuore passando anche per lo stomaco.
L’ho già fatto altre volte con altre persone, in vita mia.
A un certo punto, tutto è tranquillo. Nessuno litiga, nessuno si prende in giro, nessuno urla. Troppo tranquillo. Scatta l’allarme: A. non si trova più.
“Siete sicuri, che sia scappato?” – chiedo a un collega.
“Sì, è scappato di nuovo, di sicuro. – rispondono i compagni di stanza di A. – Non c’è più il suo caricabatterie del cellulare, il Corano e il suo maglione azzurro.”
Continuo a cucinare, perché io in quel momento solo quello, so fare, mentre i colleghi vanno a cercare A. Metto a tavola i ragazzi e apparecchio anche per lui, anche se non c’è e forse non ci sarà più.
Tornano dopo due o tre ore, e A. è con loro. I ragazzi gli fanno festa e lui sorride senza furbizia, dispiaciuto di essere andato via almeno quanto di non essere riuscito a scappare.
“A.! – gli dico in inglese, mentre tutti se lo abbracciano – Che idea è questa, scappare quando ci sono le tagliatelle a cena! Siediti, ecco, ti ho messo via un piatto. Mangia, non ti preoccupare, va tutto bene.”
Lo conosco da poche ore ma mi accorgo che sull’ultima frase l’ho abbracciato anch’io, e lui ha ricambiato guardandomi con gli occhi buoni e col suo sorridere che scoprirò poi essere tipico, inarcando la bocca senza scoprire i denti.
“Dove l’hai trovato? – chiedo al collega che l’ha riportato indietro – Come hai fatto a caricarlo in macchina?”
“Lui vuole partire. Deve lavorare, deve mandare dei soldi a casa, alla madre. – risponde – Ho fatto tutte le stazioni del circondario finché non l’ho trovato.”
“Sì, ma l’hai caricato a forza?” – chiedo, più per sapere come regolarmi - succedesse a me – che per amore di cronaca.
“No. Gli ho messo una mano su una spalla e poi gli ho mostrato gli orari dei treni, nel cartellone. E non ce n’erano, e iniziava a fare freddo. E’ salito in macchina da solo.”
Poi sono passati i giorni e ho continuato a cucinare, e ogni tanto parlavo con A. Dice che la madre sta male, che han bisogno di soldi. Dice anche che per la prima frontiera che ha passato, han dovuto fare i debiti, pagare molto. Ma lì non c’è lavoro e ci sono i fanatici religiosi, quelli che non scherzano niente. La seconda frontiera, lo han fatto passare facendo finta di non vederlo, tanto in quella frontiera lo sapevano che lui non si fermava lì ma che avrebbe proseguito verso l’Europa, passando per un paese che a quelli del paese di quella frontiera, non gli sta mica molto simpatico. Arrivato lì, erano iniziati i problemi, e questo ragazzino era stato in carcere, senza aver fatto niente, per quasi un mese. Poi era riuscito a uscire perché a un certo punto, anche quelli lì, si voltavano dall’altra parte.
Così, era montato nel retro di un camion, dopo essersi nascosto nei pressi di un distributore. Solo che, a un certo punto, il camionista se ne era accorto – che i legacci del retro non erano mica come li aveva messi lui - quando erano già in Italia, allora A. era uscito dal fianco e era salito sul tetto del camion. Il camionista è ripartito e A. si è reso conto che non poteva durare molto, così, allora aveva saltato.
Così, quando era arrivato, sembrava un gatto finito sotto a una macchina.
Lui doveva scappare, arrivare molto più a nord, che lì lo aspettavano. Rispetto alle frontiere che aveva già saltato e alle situazioni a cui aveva dovuto far fronte, l’Europa doveva sembrargli di burro, da attraversare. Però noi lo abbiamo accudito, gli abbiamo dato un tetto e cucinavamo per lui: doveva andare, ma si vedeva, che gli dispiaceva perché ci eravamo curati di lui e gli sembrava di mancarci di rispetto, a non onorare la nostra ospitalità salutandoci come si deve.
Una volta mi sono ricordato di quanto sono mediocre e gli ho detto “A., mi fai un favore?”, allora ha inarcato la bocca e fatto “sì” con la testa.
“Io sono nuovo. Non sono mica tanto bravo, con tutti i casini dei fax e chiama quello e avvisa quell’altro. La prossima volta che scappi, per favore, non è che puoi farlo quando non sono in turno io?”
Allora lui ha sorriso e annuito, abbiam finito la nostra sigaretta e non se ne è parlato più.
Poco tempo dopo, arrivo in Comunità e i ragazzi mi dicono che A. è scappato, qualche giorno prima. Sono andato in camera sua e niente, niente caricabatterie del cellulare e niente Corano. Neanche il suo maglione azzurro.
“Aveva dei soldi?” – chiedo d’istinto ai ragazzi, perché A. non aveva un soldo, di solito.
“Sì, non ti preoccupare.” – qualcuno mi risponde, e capisco dal tono che posso anche smettere di fare domande.
La sera, sento qualche rumore da social network che mi suona familiare, e un ragazzo che sta al pc a un certo punto si disconnette e si alza, ma nessun altro si avventa al pc. Dice una cosa in una lingua che non conosco a un paio di altri ragazzi. Torno ad apparecchiare e vedo che questi sussurrano qualcosa nell’orecchio agli altri. Nessuno litiga, nessuno si prende in giro, nessuno urla.
Faccio passare un po’ di tempo, fino a trovarmi a fumare con uno dei ragazzi, di fuori.
“Noi, immagino – buttò lì – non c’è modo, vero, di sapere se A. sta bene, se ha mangiato, se è al caldo…”
“Già. – risponde – Noi non lo sappiamo, che A. sta bene, che ha mangiato, che è al caldo. E non sappiamo neanche che tra qualche giorno arriverà dove vuole arrivare.”